Ti ricordi ancora perché fai questo mestiere?

Ti ricordi ancora perché fai questo mestiere?

Oct 27, 2025

C’è un momento, di solito verso le 8:07 del mattino, in cui guardi la tazza di caffè come se dovesse darti una consulenza motivazionale.


Hai dormito poco, la giornata promette email, riunioni e clienti che “devono solo pensarci ancora un po’”.


E dentro di te una vocina sussurra: “Ma io, esattamente, perché lo sto ancora facendo?”


Non è crisi esistenziale, è solo un allarme gentile del cervello: “stai lavorando in modalità fotocopia”.


Ti senti un po’ come un robot travestito da professionista, uno di quelli che parlano di sogni ma vivono di Excel.


Lo so, stai già pensando che è solo stanchezza.


E sì, in parte lo è.


Ma non solo.


Perché il vero problema non è la fatica.


È quando smetti di ricordarti per chi e perché avevi iniziato.


Ma la parte interessante arriva adesso…


Quando ti svegli e senti di aver perso la trama



Capita all’improvviso.


Un giorno apri il computer e ti accorgi che stai compilando moduli con la stessa passione con cui un bradipo aggiorna l’anagrafe.


Niente entusiasmo, niente scintilla.


Solo checklist, KPI e quel leggero senso di “e quindi?”.


Non è che non ti piaccia più il lavoro.


È che ti sembra di stare in un film di cui hai dimenticato la trama.


Ti muovi per inerzia, tra un meeting e un Excel, come un attore che recita battute che non gli dicono più niente.


Eppure, se torni indietro con la memoria, ricordi benissimo com’era all’inizio.


Quella voglia di fare la differenza, di essere utile, di vedere un cliente uscire dal tuo ufficio più sereno di come era entrato.


Ti ricordi?


Ogni volta che un cliente ti diceva “mi hai tolto un peso”, sentivi di aver scelto il mestiere giusto.


Poi sono arrivati le scadenze, i budget, i report settimanali, e hai iniziato a vivere per chiudere la giornata invece che aprirla.


Non è colpa tua: la routine tritura anche le migliori intenzioni.


Ma la buona notizia è che la trama non è sparita.


È solo rimasta indietro, sotto una montagna di PDF e webinar obbligatori.


E indovina quando la ritroverai?


Proprio nel momento in cui tornerai ad ascoltare davvero.


Il giorno in cui hai smesso di ascoltare davvero

(senza accorgertene)


Non succede in un giorno preciso.


Non c’è un allarme che suona, né una mail che ti avvisa: “Da oggi ascolterai solo per rispondere, non per capire.”


Succede piano, in silenzio.


All’inizio ascolti con curiosità vera.


Vuoi capire chi hai davanti, non solo cosa deve firmare.


Poi, poco a poco, inizi a riconoscere gli schemi.


Sai già cosa dirà il cliente, quale obiezione tirerà fuori, dove cadrà il suo “sì, ma…”.


E così, mentre lui parla, tu prepari la risposta.


La frase giusta.


Il grafico perfetto.


Il piano già pronto.


Solo che nel frattempo ti sei perso la parte più importante: lui.


C’è un momento in cui te ne accorgi.


Quando il cliente finisce di parlare, tu rispondi con sicurezza, e lui ti guarda con lo sguardo vuoto di chi non si sente davvero ascoltato.


Ti è mai successo?


Quel silenzio dopo la tua spiegazione, che dura un secondo ma pesa come un mattone?


Ecco.


Quello è il momento in cui hai capito che l’empatia non si automatizza.


Facciamo un passo indietro, però.


Com’è che siamo arrivati a diventare fotocopie con la cravatta?


La fabbrica dei consulenti fotocopia:

istruzioni per non restarci incastrato


Hai presente quelle sale riunioni dove tutti sembrano usciti dallo stesso catalogo aziendale?


Stesso completo blu, stesso linguaggio da brochure, stesso sorriso di circostanza calibrato su “empatia istituzionale”.


È come se esistesse una stampante 3D che sforna consulenti perfetti, solo che ogni tanto si inceppa…


... e da lì esce qualcuno con ancora un briciolo di personalità.


Il sistema non lo fa per cattiveria.


È progettato per proteggerti (o almeno è quello che ti vogliono far credere).


Ti dà frasi sicure, script approvati, tabelle che “funzionano sempre”.


Solo che a forza di sicurezza, ti toglie l’anima.


E così, invece di raccontare storie vere, finisci per ripetere quelle degli altri.


Invece di parlare come te, parli come “l’azienda”.


Il problema?


Che il cliente lo sente.


Sente quando stai leggendo da un copione invisibile.


E in quel momento smette di crederti.


Perché i clienti non cercano un consulente perfetto.


Cercano qualcuno che li capisca anche quando non sanno dirlo bene.


La buona notizia è che non serve ribellarsi.


Basta rimettere un po’ di te stesso dentro ogni parola.


E sai qual è la parte interessante?


Quando torni a farlo, ti accorgi che la stanchezza inizia a svanire…


Perché la stanchezza non è pigrizia, ma nostalgia di senso.



Quando dici “sono stanco”, di solito non parli di sonno.


Parli di un logorio più sottile, quello che ti fa guardare un report e pensare: “Sì, ma perché lo sto facendo?”


Non è pigrizia.


È nostalgia.


Nostalgia di quando ogni incontro aveva un senso, di quando sentivi che ogni cliente era una storia da scrivere e non una casella da spuntare.


La verità è che la motivazione non si spegne di colpo.


Si spegne a poco a poco, come un neon in una filiale il venerdì sera.


Ogni volta che scegli la prudenza al posto della passione.


Ogni volta che dici “non ho tempo” invece di dire “non so da dove ripartire”.


Ecco il paradosso: ti sforzi di sembrare sempre “professionale”, quando i clienti hanno bisogno di vederti umano.


Nei momenti di crisi – e lo sai bene – non cercano qualcuno che reciti la sicurezza, ma qualcuno che la trasmetta.


E la trasmetti solo se ci credi ancora.


La buona notizia?


Quel senso non se n’è andato da nessuna parte.


Sta solo aspettando che tu ti fermi a guardarlo di nuovo.


E quando lo fai… scopri che il cliente non è l’unico a voler essere ascoltato.


Ammettilo...


...c’è stato un tempo in cui pensavi che per essere credibile dovevi sembrare impeccabile.


Risposte pronte, voce ferma, postura da manuale.


Zero esitazioni, zero sbavature.


Poi ti sei accorto che, più cercavi di essere perfetto, meno la gente ti credeva.


Perché la perfezione non ispira fiducia.


Nessuno di noi vuole avere a che fare con un robot che sa tutto.


Vogliamo qualcuno che ci capisca anche quando non sappiamo spiegarci.


Vogliamo sentirci liberi di dire “ho paura” senza essere corretti con un grafico.


La verità è che quando ti mostri umano, non perdi autorevolezza: la moltiplichi.


Un consulente che ammette un dubbio, che racconta un errore, che usa esempi veri… comunica più sicurezza di cento slide.


Quindi più ti permetti di essere te stesso, più i clienti si aprono a te.


A questo punto, non serve un cambiamento radicale.


Serve solo ricordarti com’è stare “vivo” in quello che fai.


E sì, si può tornare a sentirlo — anche senza cambiare mestiere.


Come tornare a sentire il tuo lavoro senza cambiare mestiere


La tentazione, quando ti senti svuotato, è pensare che serva scappare.


Cambiare rete, città, scrivania, magari addirittura settore.


Ma la verità è che non devi fuggire da quello che fai.


Devi solo tornare a farlo come eri tu.


Non serve un piano di marketing nuovo, serve una piccola manutenzione dell’anima.


Comincia da qui: racconta una storia vera a un cliente questa settimana.


Una, non di più.


Magari quella volta che un collega ti ha insegnato qualcosa, o che un cliente ti ha spiazzato con una domanda semplice.


Parla meno di prodotti e più di scelte.


Meno di rendimento e più di motivazione.


Ogni volta che lo fai, scatta una cosa sottile: ti riappropri del tuo mestiere.


Perché smetti di vendere e torni a servire.


Il paradosso?


Proprio quando smetti di forzare le cose, tutto riprende a funzionare.


E poi… succede qualcosa di sorprendente.


Ti accorgi che non sei più stanco.


Sei di nuovo coinvolto.


Piccoli segnali che ti dicono che stai tornando te stesso


Non c’è fanfara, né applauso.


Il ritorno a te stesso non arriva con un post motivazionale, ma con dettagli quasi invisibili.


Tipo che, un giorno, finito un incontro, ti accorgi che stai sorridendo per davvero.


Non perché hai chiuso un contratto, ma perché hai capito una persona.


Oppure che ti sorprendi a parlare senza frasi preconfezionate, e il cliente ti segue con lo sguardo, non con l’orologio.


Ti accorgi che non controlli più la mail compulsivamente, perché una conversazione buona vale più di dieci preventivi.


E quella leggera ansia da prestazione che ti accompagnava in ogni call… puff, si sgonfia come un palloncino la sera dopo la festa.


Sono piccole cose, ma fanno rumore dentro.


Perché ogni volta che riscopri la tua voce, il lavoro smette di essere “lavoro” e torna a essere ciò che doveva: un modo per lasciare un segno.


Insomma, una piccola scelta che fa una grande differenza.


E a quel punto, il tuo “perché” torna a bussare.


Gentile, ma deciso.


Il bello del “perché” è che non muore mai.


Puoi ignorarlo, seppellirlo sotto riunioni, file Excel e clienti difficili, ma resta lì.


In attesa.


A volte basta una frase detta da un cliente, una stretta di mano sincera, o anche solo una pausa caffè fatta senza scrollare LinkedIn, per sentirlo riemergere.


È quel momento in cui ti torna in mente la prima volta che ti sei detto: “voglio fare questo lavoro per aiutare le persone a stare meglio con i loro soldi, non per vendergli prodotti.”


Sembra una banalità, ma è la bussola che ti riporta a casa.


E se ci pensi, il mestiere del consulente è uno dei pochi che, se fatto con cuore, lascia una traccia reale nella vita degli altri.


Il problema è che ce lo dimentichiamo, presi a inseguire obiettivi che cambiano ogni trimestre.


Ma il “perché” non cambia.


Si limita a coprirsi di polvere.


E proprio quando pensavi di averlo perso, succede qualcosa di semplice — uno sguardo, un grazie, una storia — e lo risenti vibrare.


E ti rendi conto che non avevi bisogno di un nuovo inizio.


Solo di ricordarti chi sei.


Perché In un mondo che ti spinge a essere sempre “più performante”, ricordarti chi sei sembra quasi un atto di ribellione.


Ma non lo è.


È solo onestà.


Perché non puoi guidare gli altri verso scelte consapevoli se tu per primo vivi in automatico.


Un consulente che ha ritrovato il proprio centro trasmette qualcosa che nessun corso insegna: presenza.


Si vede nel tono di voce, nel modo in cui ascolta, persino nel silenzio prima di rispondere.


Ed è proprio lì che i clienti si fidano davvero.


Non del prodotto.


Non del grafico.


Di te.


Ritrovare te stesso non è egoismo.


È la più grande forma di servizio che puoi offrire.


Perché quando sei allineato al tuo “perché”, non vendi soluzioni.


Aiuti le persone a scrivere capitoli più sereni della loro vita finanziaria.


Alla fine, è sempre stato questo il tuo mestiere.


Solo che te l’eri dimenticato per un po’.


Ed ora, dopo questo pippone da guru motivazionale (che non sono) vediamo cosa puoi portarti a casa:



Takeaway pratici


  • Ritrova il primo cliente nella memoria. Quello che ti ha fatto dire “questo è il mio lavoro”. È ancora la tua bussola.


  • Racconta, non spiegare. Ogni storia vera riaccende in te — e in chi ti ascolta — il senso di ciò che fai.


  • Concediti umanità. Nessun cliente si affeziona a una tabella, ma si ricorda chi l’ha fatto sentire capito.


  • Smetti di rincorrere il nuovo. Spesso ciò che cerchi è già lì, solo sepolto sotto l’abitudine.


  • Rallenta un minuto prima di ogni incontro. Respira, ascolta, ricorda che stai parlando con una persona, non con un portafoglio.


Provalo nel prossimo incontro con un cliente.


Non cambiare tono, cambia presenza.


Parla come te stesso — vedrai che qualcuno, dall’altra parte, tornerà ad ascoltare.


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