Fai anche tu questo errore quando utilizzi l'IA? (e come evitarlo per non sembrare un robot)
Hai mai visto un consulente che scrive con l’IA e si vanta:
“Ci ho messo due minuti!”
Ecco, in quei due minuti ha risparmiato tempo… e perso personalità.
È la nuova sindrome del professionista moderno: usare la tecnologia per sembrare più efficiente, e finire per sembrare tutti uguali.
Post impeccabili, testi puliti, ma nessuno che ti fa dire: “Questo è lui.”
L’errore non è l’IA.
È il modo in cui la usi.
La tentazione è forte: lasciarle scrivere tutto.
Dopotutto, è brava, veloce, cortese, non fa errori grammaticali e non chiede ferie.
Ma c’è un piccolo dettaglio: non ha vissuto le tue storie.
Non ha visto la faccia del cliente che scopre di poter finalmente dormire tranquillo.
Non ha sentito la stretta di mano dopo una scelta difficile.
Tu sì.
Ecco perché la differenza non sta nel “quanto” usi l’IA, ma nel “come” la guidi.
Perché se la lasci al volante, ti porta dritto a schiantarti contro il muro dell’indifferenza.
In questo articolo scoprirai cosa fare per non farti sostituire dalla macchina che doveva aiutarti.
Non ti spiegherò comandi o tecnicismi — quelli li trovi ovunque.
Qui parliamo di qualcosa di più prezioso: la tua voce, la tua intenzione, la tua autenticità.
Pronto?
Allora partiamo dal primo errore, quello che rovina tutto ancora prima di iniziare.
Delegare all’IA?
È il primo errore che ti fa perdere la voce
Il primo errore non lo fa l’IA.
Lo fai tu, quando le chiedi di parlare al posto tuo.
Succede piano.
All’inizio le chiedi “un’idea per un post”.
Poi “un testo completo”.
Poi “un calendario editoriale”.
E un giorno ti ritrovi con una comunicazione perfetta…
...ma che potresti firmare col nome di chiunque.
Delegare all’IA la tua voce è come far scrivere le lettere d’amore al correttore automatico.
Non sbaglia una virgola, ma non fa battere il cuore.
Il cliente non cerca la frase giusta — cerca la persona giusta.
E se non sente che dietro le parole ci sei tu, smette di ascoltare.
Quindi l’IA non va esclusa, va diretta.
È uno strumento, non un portavoce.
Può amplificare la tua idea, non sostituirla.
Può suggerirti alternative, non prendere decisioni al tuo posto.
Quindi: cosa fare?
Semplice (almeno a dirsi!).
Rimani tu il regista.
Scrivere con l’IA non significa “lasciarla fare”, ma “farle capire chi guida la storia”.
E quando capisci questo, ti accorgi che il problema non è la tecnologia…
... é il ritmo con cui ti ci affidi.
Perché L’IA corre veloce.
Aggiorna, ottimizza, produce.
E tu, consulente, resti lì a inseguire.
Ti senti come uno che deve correre la maratona con le scarpe slacciate.
Parti forte, ma dopo pochi chilometri inciampi nella fretta.
Il punto è questo.
La tecnologia ha il ritmo dell’algoritmo, tu hai quello del battito.
E il battito non si copia, si ascolta.
Quando provi a comunicare alla velocità della macchina, smetti di pensare e inizi solo a pubblicare.
E così, i tuoi contenuti diventano come il feed di LinkedIn: perfettamente inutili.
L’IA è fatta per fare presto.
Tu sei fatto per dire qualcosa che resti.
La differenza sta nel tempo che ti concedi per decidere cosa vuoi dire davvero.
Non serve scrivere dieci post a settimana se nessuno dice qualcosa che ti rappresenta.
Meglio uno, ma vero.
Cosa fare, allora?
Non inseguire la velocità.
Proteggi la lentezza giusta — quella che ti permette di scegliere le parole come scegli un investimento: con intenzione, non per impulso.
Perché un messaggio che nasce in fretta, muore in fretta.
E uno che nasce da un pensiero, costruisce fiducia.
L’intenzione è quel dettaglio invisibile che separa un messaggio qualunque da una storia che resta.
Come strutturare messaggi che restano
Ogni messaggio ha due strati.
Quello che dice, e quello che vuole dire.
Il primo lo può scrivere chiunque.
Il secondo nasce solo da chi ha un’intenzione chiara.
Molti consulenti usano l’IA per “comunicare di più”, ma dimenticano perché vogliono farlo.
E così riempiono la rete di post che spiegano prodotti, parlano di mercati, elencano vantaggi — ma non raccontano niente.
Sono come vetrine senza luce.
Tutto esposto, niente che brilla.
L’intenzione narrativa è la scintilla che trasforma un testo tecnico in una storia che tocca.
È la direzione invisibile che guida ogni parola.
Quando la perdi, anche il miglior testo diventa rumore.
Prima di scrivere — con o senza IA — chiediti:
“Che emozione voglio lasciare a chi mi legge?”
Non “che informazione”, ma che sensazione.
La differenza è enorme.
Un dato si dimentica, un’emozione resta.
E, come mi senti dire spesso se mi segui da un po’, il cliente non ricorda cosa hai detto, ma come l’hai fatto sentire.
L’IA può aiutarti a comporre frasi, ma solo tu puoi darle un motivo per esistere.
E quando quell’intenzione manca, anche l’algoritmo si perde.
E quando un messaggio perde la sua luce, il cliente smette di guardarlo.
Ed è lì che entra in gioco la vera conseguenza dell’automatizzare troppo.
Testi “automatizzati” = lettori che scrollano sullo schermo
Hai presente quando scorri il feed e tutti dicono le stesse cose, solo con parole diverse?
Ecco, quello è l’effetto dell’automazione senza anima.
Contenuti corretti, coerenti, ma senza presenza.
Quando un cliente percepisce che dietro un messaggio non c’è una persona, smette di leggerlo.
Non perché il testo sia sbagliato — ma perché non sente connessione.
Un post “generato” suona come una voce registrata.
Non sbaglia mai tono, ma non ti viene voglia di risponderle.
Nella consulenza, questo è fatale.
Perché il cliente non compra competenza.
Compra fiducia.
E la fiducia nasce da un linguaggio che profuma di esperienza, non di algoritmo.
Un testo automatizzato può informare, ma non può rassicurare.
Può spiegare, ma non può empatizzare.
Può farsi leggere, ma non può farsi ricordare.
E allora devi mantenere e ricordare sempre la regola d'oro.
Se un contenuto sembra neutro, riscrivilo finché non si sente vivo.
Non importa quanto sia “corretto”.
Conta solo se qualcuno, leggendolo, pensa: “Parla proprio a me.”
Quando il cliente smette di sentirti, non serve a nulla pubblicare di più.
Devi tornare umano.
E proprio per tornare umani, bisogna prima capire dove inciampiamo.
5 trappole comuni in cui cadono i consulenti con l’IA
L’IA è come un assistente super efficiente.
Non sbaglia mai, non si stanca mai, ma se le chiedi di pensare per te… lo farà a modo suo.
E spesso (direi sempre) male.
Vediamo le 5 trappole più comuni — quelle in cui anche i migliori inciampano.
1. Il “prompt pigro”.
Domande generiche = risposte generiche.
L’IA non legge nel pensiero, amplifica solo ciò che le dai.
2. La “voce fantasma”.
Testi perfetti ma impersonali.
Parlano di “clienti”, “mercati” e “obiettivi”, ma nessuno sa chi stia parlando.
3. La “sindrome del copia-incolla”.
Usare modelli trovati online e incollarli con il proprio logo sopra.
Risultato: sembri un’agenzia, non un consulente.
4. L’illusione della quantità.
“Più pubblico, più mi vedono.”
In realtà, più pubblichi senza dire nulla, più diventi invisibile.
5. La mancanza di filtro.
Accettare tutto ciò che l’IA propone senza chiedersi se ti rappresenta davvero.
Un errore di autenticità, non di algoritmo.
Riconoscere le trappole non serve a evitarle tutte, ma a camminare con attenzione e consapevolezza.
E questa consapevolezza nasce da una sola cosa: una voce chiara e riconoscibile.
Non quella perfetta, ma quella autentica — quella che l’IA non potrà mai copiare.
La tua!
Non serve un prompt perfetto: serve una voce riconoscibile
Tutti cercano il prompt perfetto.
Quel comando magico che farà dire all’IA esattamente ciò che vogliono.
Ma ecco la verità: non esiste.
Perché la qualità della risposta non dipende dalla macchina, ma da quanto tu conosci la tua voce.
La maggior parte dei consulenti non ha un problema di scrittura.
Ha un problema di identità comunicativa.
Non sa come “suona” quando parla.
E se non lo sai tu, figurati l’IA.
La voce riconoscibile nasce da tre elementi semplici:
1) Un tono coerente. Come parleresti a un cliente di fronte a un caffè, non dietro una scrivania.
2) Un punto di vista netto. Avere il coraggio di dire cosa pensi, anche se non è la versione più comoda.
3) Un ritmo personale. Quella musicalità che fa capire, già dopo due righe, che sei tu.
Cosa fare?
Prima ancora di scrivere, decidi chi vuoi essere quando comunichi.
L’IA può imitare uno stile, ma non può incarnare un carattere.
Non serve trovare il prompt giusto.
Serve trovare la tua voce giusta — e poi insegnarla alla tecnologia.
Perché, ammettiamolo, ci sono testi che, dopo tre righe, potresti firmare con qualsiasi nome.
Stesso tono, stessi esempi, stesse frasi tipo: “In un mondo che cambia sempre più velocemente…”
Appena li leggi, capisci che sono figli dell’automazione.
E lì scatta il problema: se tutto suona uguale, nessuno ascolta più.
L’omologazione è il vero virus della comunicazione digitale.
E l’IA, se non la governi, la diffonde più veloce del contagio.
Ti toglie il rischio di sbagliare… ma anche la possibilità di sorprendere.
Eppure la forza di un consulente sta proprio nella differenza.
Nel modo in cui interpreta i numeri, racconta una scelta, o traduce una paura in fiducia.
Quella è la tua firma emotiva — e l’IA non la conosce finché non gliela mostri.
La vera autorevolezza non è “essere perfetti”, ma essere personali.
Perché il cliente non si affeziona a chi comunica bene.
Si affeziona a chi comunica come nessun altro.
E proprio per mantenere quella unicità, serve un patto chiaro: chi guida e chi assiste.
E l’IA, in questo patto, non è il capitano.
L’IA come assistente: la direzione deve rimanere tua
Immagina di avere un assistente bravissimo: scrive, riassume, trova dati, organizza tutto.
Tu gli dici cosa vuoi e lui lo fa in pochi secondi.
Fantastico, vero?
Finché un giorno ti accorgi che lui ha iniziato a decidere cosa vuoi davvero.
Ecco cosa succede quando lasci che l’IA prenda il volante.
Ti abitui alla sua precisione e dimentichi che la direzione spetta a te.
L’IA può aiutarti a pensare, ma non può scegliere per te.
Può suggerire, non sostituire.
Può essere un navigatore, ma la rotta resta tua.
Un consulente senza direzione comunicativa è come un investitore che compra a caso.
Può anche azzeccarla una volta, ma non costruirà mai futuro.
La direzione è ciò che dà senso a ogni messaggio.
È la bussola che tiene coerenti tono, valori e storie.
Cerca di utilizzare l’IA come un amplificatore delle tue idee, non come la fonte.
Falle domande, ma parti sempre da una convinzione.
La macchina è un megafono, non una bocca.
Serve solo se hai qualcosa di autentico da dire.
Quando tieni tu il volante, la comunicazione va dove vuoi tu.
Quando lo molli, ti porta dove vanno tutti.
E prima di accelerare di nuovo, fermati un attimo.
C’è una domanda semplice che può salvarti da molte scivolate comunicative.
Prima di cliccare “Pubblica”, chiediti: “Mi ci riconosco?”

È la domanda più semplice e più potente che puoi farti.
Eppure, quasi nessuno la fa.
Siamo abituati a chiedere: “È scritto bene?”, “Funziona con l’algoritmo?”, “È in linea con la brand voice?”
Ma raramente ci chiediamo: “Mi ci riconosco davvero?”
E invece è lì che si gioca tutto.
Perché la qualità di un messaggio non si misura in “engagement”, ma in coerenza.
Se ti rispecchia, costruisce fiducia.
Se non ti rispecchia, costruisce confusione.
Quando scrivi — con o senza IA — dovresti sentire che quelle parole ti appartengono.
Devono profumare della tua esperienza, dei tuoi errori, delle tue convinzioni.
Devono suonare come la tua voce in una stanza piena di rumore: unica, riconoscibile, viva.
Datti il permesso di dire “questa frase non mi rappresenta” e cambiarla.
Non serve piacere a tutti, serve essere credibile per chi ti sceglie.
E ogni testo che non ti somiglia, è un’occasione persa per costruire relazione.
In fondo, il miglior test di autenticità è semplice: se lo leggeresti anche tu, allora vale la pena pubblicarlo.
E adesso che hai capito come restare te stesso tra algoritmi e automatismi, c’è solo un’ultima cosa da proteggere: la tua storia.
Hai l’IA: ora proteggi la tua storia, non affossarla
L’IA è qui per restare.
Non è una moda, è una rivoluzione.
Ma come ogni rivoluzione, non cambia solo gli strumenti.
Cambia anche chi li usa.
E tu, consulente, sei davanti a una scelta.
Lasciarti trascinare dalla comodità del “fa tutto lei”.
Oppure usarla per amplificare ciò che hai di più umano — la tua storia.
La tua storia è il tuo capitale emotivo.
È ciò che ti rende credibile quando parli di numeri.
Rassicurante quando spieghi rischi.
Memorabile quando racconti soluzioni.
È il tuo vantaggio competitivo in un mondo di contenuti fotocopia.
L’IA può scrivere un testo impeccabile, ma non può vivere un errore, un successo o un momento di svolta.
Non può sapere cosa si prova a dire “fidati di me” e sentire che qualcuno lo fa davvero.
Quella verità lì — quella connessione invisibile — è solo tua.
Cosa fare, allora?
Usa la tecnologia per rendere la tua storia più chiara, non per cancellarla.
Per semplificare il linguaggio, non per svuotarlo.
Per liberarti tempo, non per perdere senso.
In un mondo che parla con l’IA, chi continua a parlare da umano farà sempre la differenza.
Perché i grafici si buttano...
… ma le storie restano.
Non temere l’IA.
Devi temere il giorno in cui smetterai di metterci te stesso.
Perché le macchine non rubano i lavori.
Rubano le voci di chi smette di usarle.
E tu non sei un generatore di contenuti.
Sei un consulente con una storia da raccontare.
Un essere umano che ogni giorno traduce ansie in soluzioni, grafici in fiducia, numeri in serenità.
E quella roba lì, nessuna macchina può copiarla.
Quindi, prima di chiedere all’IA di scrivere per te, chiedile di capirti.
E prima ancora, assicurati di sapere chi sei quando comunichi.
Solo così ogni parola — generata o meno — parlerà davvero di te.
Non serve diventare esperti di prompt o strategie di automazione.
Serve ricordarsi perché fai quello che fai.
Perché la consulenza non è informazione: è relazione.
E la relazione vive di autenticità, non di algoritmi.
La prossima volta che apri ChatGPT, non chiedergli “Scrivimi un post sul valore del risparmio”.
Chiediti piuttosto:
“Come posso far capire al mio cliente che il risparmio è una forma di libertà?”
l’IA serve per raccontare meglio la tua storia.
KEEP IT SIMPLE
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